L’autunno scorso mi ha vista partecipe di un nuovo progetto editoriale. Nuovo anche perché diverso dai precedenti progetti, ovvero dalle collaborazioni alla traduzione del saggio di Tina Brown, Lady Diana Chronicles, e ai manuali tecnici editi da Hoepli. In quel caso si trattava da un lato di traduzioni parziali, dall’altro di lavori che, per contenuti e linguaggio, rientravano nella mia esperienza professionale quotidiana.
Nel mese di settembre, appunto, vengo contattata da Francesco Aquilino, insegnante di lettere e poeta dialettale calabrese, con l’invito a partecipare, come traduttrice e poi curatrice, al progetto di traduzione in inglese e in tedesco di circa venti componimenti selezionati dalla raccolta ‘Nu paisi. Poesie calabresi nel dialetto di Tropea. Si trattava di traduzioni destinate ad essere inserite in un’appendice della stessa opera che raccoglie altre versioni liriche in dialetto lombardo, tedesco, inglese, francese e spagnolo, oltre a quelle a me direttamente affidate, ampliata peraltro da un apposito glossario intitolato, con l’ironia che distingue l’autore, “Calepinus seu lexicon septem linguarum. Capiscitàriu”.
Lusingata e sorpresa in un primo momento, mi scopro poi anche un po’ intimorita, presa da quella forma di timore che accompagna il nuovo e che in questo caso mi appariva grande: traduzione di poesia innanzitutto, dei versi del “cantore di Tropea” e, inoltre, non nella mia lingua madre. Del resto, la traduzione di per sé non è mai semplice trasposizione del testo sorgente. Il dizionario e le proprie competenze linguistiche, per quanto si creda, sono solo il primo passo di un lungo percorso: il lavoro vero e proprio comincia solo una volta richiuso il dizionario. E, se l’obiettivo è una traduzione di qualità, questa verità riguarda tutti i campi della traduzione. Ecco finalmente per me, grazie a un autore genuino e scabro come la sua terra, l’opportunità di percorrere questa nuova strada nel campo della traduzione letteraria.
Il manoscritto dell’opera, in occasione dell’assegnazione del premio nazionale “Lago Gerundo”, avvenuta il 18 marzo 2006, è definito da Paolo Lagazzi “una singolare rappresentazione scenica della vita umana”. Come indica l’autore stesso, l’opera affronta infatti, oltre alle tematiche più tradizionali come l’amore, il passare del tempo o la nostalgia del luogo natio, quelle dettate dalla realtà contingente, come la condizione femminile, l’emarginazione, l’incomunicabilità, “con qualche sconfinamento nel mondo dell’apologo e della favola, dell’epigramma e del nonsense”.
Ma come rendere in tedesco e in inglese i versi di queste poesie caratterizzate da un ritmo che evoca antiche cadenze, costellate di detti popolari elegantemente inseriti nelle più diverse composizioni di quest’opera davvero singolare? Come far fronte agli svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra? Svantaggi sicuramente compensati dalla possibilità di lavorare anche a stretto contatto con l’autore, di potermi confrontare con lui, ottenere conferme o pareri critici, un’ulteriore nuova opportunità per me. E poi lo stimolo fornito dalle esigenze stesse dell’autore che ha concesso ed esplicitamente richiesto a noi traduttori di staccarci dal testo di partenza, facendoci sentire liberi di poterlo fare, incoraggiandoci a realizzare quello che a noi inizialmente sembrava quasi un insulto al testo originario, che, non da ultimo e benché affiancato da una traduzione italiana, è nel coloritissimo dialetto di Tropea. Come scrive l’autore stesso nella premessa alla raccolta: “L’obiettivo è stato quello di ricreare delle nuove liriche partendo dal testo originario e non quello di limitarsi a semplici traduzioni letterali. Si è cercato, pertanto, di conservare quella patina di antico che è propria della poesia vernacolo, ricorrendo, ad esempio, ove possibile, ma senza forzature, all’uso della rima e ad un lessico che non rinuncia alla musicalità dei testi”.
L’entusiasmo iniziale un po’ timido ha gradualmente lasciato il posto ad un reale trasporto che mi ha accompagnato lungo questo percorso conclusosi felicemente nel dicembre 2008. Un’occasione per combinare la mia passione per le lingue straniere a quella per i dialetti e alla mia predilezione per i dialetti dell’Italia meridionale. Questo perché, se si è lavorato in presenza della traduzione italiana, è pur vero che, durante il lavoro di traduzione, era d’obbligo leggere, assaporare e interiorizzare continuamente l’originale in vernacolo, per poter restituire al testo d’arrivo, o almeno provare a farlo, la stessa ironia, la stessa coloritura, la stessa saggezza, la stessa piacevole sonorità.
Riferendosi all’appendice delle traduzioni, l’autore scrive: “Gli orizzonti dell’opera risultano in tal modo notevolmente ampliati, al di là di ogni steccato: perché la poesia è un dono da non tenere per sé ma da condividere con gli altri.”
Per condividere questa esperienza, allora, un assaggio dalla raccolta:
?U guai è di cu? mori
Marìtuma no? poti ?mu nci pensa
ca jeu morivi: no? nci abbastanza ?u cori.
Ma ?u tempu sana – dici ?na sintenza –
e ?u guai, cridi a mia, è di cui mori.
Wer tot ist, sitzt in der Falle
Mein Mann ist erfüllt von Schmerz.
Bei meinen Tod brach ihm das Herz.
Die Zeit heilt jede Wunde, sagen alle.
Doch sitz ich tiefer in der Falle.
Troubles for the Dead
My husband can’t stand the pain of my death,
He is losing heart and can’t even breath.
But time heals all woes – so it is said…
Though in trouble is the one who’s dead.
Il guaio è di chi muore
Mio marito non può pensarci – che io sono morta: non gli regge il cuore. – Ma il tempo guarisce – dice una sentenza – – e il guaio, credi a me, è di chi muore.
Primu Amuri
No’ parravi tu a palori,
ma cu du’ occhj tradituri,
chi i varcuni su’ du cori
quandu parranu d’amuri.
Occhj nighiri, ‘i villutu,
chi scavavanu nto fundu:
jeu restavi nzallunutu,
no’ parivi tu ‘i ‘stu mundu.
E chii labbra ancora agresti
chi mi ficiru provari
quandu ‘u primu vasu desti!
Labbra e occhj ‘ncantaturi…
no’ ssi ponnu mai scordari,
no’ ssi scorda ‘u primu amuri…
Erste Liebe
Du sprachst nicht mit Worten,
sondern mit deinen Augen, die dich verrieten.
Sie sind die Fenster zum Herzen,
wenn sie von Liebe erfüllt sind.
Tiefschwarze Samtaugen,
die mich unentwegt ins Staunen versetzten,
als würden sie einem Engel gehören.
Und deine herben Lippen
machten mich verrückt,
als ich deinen ersten Kuss spürte!
Bezaubernde Lippen und Augen…
Immer werde ich mich daran erinnern.
Nie vergisst man die erste Liebe…
First Love
You used not to speak with words,
But through two treacherous eyes,
Which are the windows of the heart
When they speak of love.
Deep black velvet eyes,
They used to stun me all the time,
Since they looked like angel eyes.
How I felt by your first kiss
From these unripe lips I miss!
Your charming lips and eyes…
Which nobody can forget,
I’ll remember them forever…
Unforgettable first love.
Primo amore
Non parlavi tu a parole, – ma con due occhi traditori, – che i balconi sono del cuore, – quando parlano d’amore. – Occhi neri, di velluto, – che scavavano nel fondo: – io rimasi stordito, – non sembravi tu di questo mondo. – E quelle labbra ancora acerbe, – che mi fecero provare – quando mi desti il primo bacio! – Labbra e occhi incantatori… – Non si possono mai scordare, – non si scorda il primo amore.
Magarìa
Amuri… prima a tia t’alliccunìa
e poi ti dassa cu ?nu pugnu ?i muschi!
Amuri… cchjù tu duni e menu abbuschi.
Amaru cu cci cridi ? magaria!
Magic
Love flatters you at first
Then you’re left empty-handed!
You give much love and get the worst…
Wait for magic and you are stranded!
Magia
L’amore…prima ti lusinga – e poi ti lascia con un pugno di mosche! – L’amore: più tu dai e meno ricevi. – Infelice chi crede al sortilegio!
Pagghja nto fumèri
Annicei mei passati a cazzicani,
jettàti comu acqua di varvèri!
Sulu ?u vi penzu, jeu mi mangiu i mani,
mi sentu comu pagghja nto fumèri!
Stroh im Misthaufen
Weggeworfen habe ich meine besten Zeiten.
Vergeudet mit allerlei Albernheiten.
Ich könnte mir die Haare raufen.
Ich fühle mich wie Stroh im Misthaufen.
Paglia nel letame
Annetti miei passati alla carlona, – gettati via come acqua di barbiere! – Al solo pensiero mi mangio le mani, – mi sento come paglia nel letame!